flume studio

Live from here

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Qui sotto puoi leggere l’articolo apparso sul #5 di Thea.
Al termine delle registrazioni del cd del Distretto 51 (Luglio 2005), presso il Molina, il mio amico Gogone (my personal Bobby Jean) mi ha chiesto di scrivere una specie di un diario di quei giorni…

Ormai è passato un mesetto (anche due) da quell’esperienza e molti ricordi se ne sono semplicemente andati, oramai (ora o mai più).
Ma più che ricordi dettagliati rimane la sensazione di quell’esperienza, una specie di massa senza una forma facilmente identificabile.
È come quando vai a una mostra, ci stai un paio d’ore poi torni a casa; al momento hai dei ricordi dettagliati, quel quadro quelle persone la guardia che guarda (che guardia), insomma una somma quasi esatta di tutto ciò che hai più o meno vissuto. Poi però con l’andare del tempo tutto si (con)fonde e diventa qualcosa di nuovo e quello che hai, quello che rimane, è una cosa senza nome (ma che aspetta di essere ri-chiamata) e che soprattutto senti nella pancia. Una foto di gruppo da lontano. Sfocata.
(I ricordi sono foto in 3D.)
Ma a volte, da questa cosa può darsi che salti fuori, inspiegato e inaspettato, un dettaglio: un profumo, un suono, una forma, uno stato.
Istantanee con flash.
Per ricordare la musica bisogna fare silenzio, così mi metto davanti a questo fiume e aspetto, cercando di non pensare a niente, neanche alla musica, neanche al silenzio. E così il rumore di fondo della strada mi aiuta, anche lui, a chiamare, a richiamare.
Quattro giorni di full immersion in un mondo musicale che credevamo di conoscere, le canzoni, alcune suonate mille volte prima, il sound, l’assolo che non viene, il pubblico non pagante, le occhiate per il finale,…
[Istantanea #4]
Mi viene in mente “feeling alright”, una canzone che farebbe ballare anche un sordo. Non avevamo un finale pronto o almeno che funzionasse; prova questo, fai così, niente. “Vorrà dire che andremo avanti e poi sul cd sfumeremo”, aveva detto qualcuno. Un finale non finito, un ibrido, un gatto che si rincorre la coda finché, stanco, si addormenta.
Ma durante il concerto del venerdì sera ho finalmente compreso l’importanza del pubblico: esso ha la possibilità di diventare un nuovo strumento, al pari degli altri. Non mi riferisco soltanto alle mani che seguono il tempo, piuttosto al fatto che la massa di persone che ti ascoltano assume una nuova originale identità che decide autonomamente dalla testa di ogni singolo spettatore. (Uno più uno fa qualcos’altro.)
Così il finale è arrivato da questo nuovo strano organismo: ha tenuto il ritmo con le mani, anche e soprattutto quando nessuno se lo aspettava. Nessuno. Anche e soprattutto quando noi, ad un certo punto (chissà perché) abbiamo smesso di suonare. Così nel cd sentirai le mani che vanno, vanno, e che progressivamente si trasformano in applauso che è gioia e chissà cos’altro.
[Istantanea #23]
Come quando durante le prove stavamo ripetendo per la centesima volta un brano; è stato strano, per noi fiati sbagliare contemporaneamente in un passaggio, l’unico che era sempre venuto. In questi casi quando tutto è portato verso limiti (anche fisici) inesplorati (“The zone”) succedono cose inaspettate, la comunicazione, anche se inconsapevole, avviene ad altri livelli, dove le parole non sono ammesse.
[Istantanea #36]
La sala piena di vip sconosciuti. E poi i prima fila due vecchiette (perché dovrei chiamarle anziane se si sono guadagnate la vecchiaia?). Entrambe sedute lì dalle sei del pomeriggio per tenere il posto. Una delle due, durante il concerto faceva andare la gamba (che non toccava a terra) a tempo di musica. Body and Soul. Bellissimo.
Uno strano contrasto tra l’essere nel tempo e uscire da esso grazie alla musica.
Sono sicuro che appena ti avrò mandato questa serie di piccole cose quasi insignificanti mi verranno in mente altri dettagli. Pazienza. L’importante è aver cercato di vivere ogni nota come se fosse l’ultima. Ci siamo riusciti?

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